L'agghiacciante racconto di quando Vittorio Feltri cercò di stuprarmi

Amici e amiche,

Ora, quando penso a Satana, mi si materializza nella testa il viscidume di un sedicente giornalista, direttore di una delle testate, ahimè, più importanti del nostro Paese: Vittorio Feltri. Il fattaccio che sto per raccontarvi accadde circa un anno fa, quando ancora stavo completando gli studi dell'ultimo anno delle superiori. In quel tempo ero ingenua come Cappuccetto Rosso e sprovvista del know how che ora mi corazza dagli Adelphi della dissoluzione, tanto che finii dritta dritta nelle fauci del lupo malvagio.

Vi narro questa lugubre storia per ammonirvi dei pericoli insiti in una speranza come quella di lavorare nel fantastico mondo del giornalismo, speranza di cui ho visto gravidi gli occhi di alcune neolaureate dello Iulm, bramose di prendere il posto della loro beniamina Concita de Gregorio.

Avevo 18 anni quando mi recai nella sede milanese de Il Giornale per un colloquio di lavoro. Ero stata contattata da una segretaria per una proposta di collaborazione. “Il nostro prestigioso direttore ha letto il tuo blog e sarebbe interessato, previo colloquio, ad inserirti nell'organico”. Io ancora non sapevo di tutto il coacervo di malvagità luciferina insito in questa testata berlusconiana ed ero assai felice di poter esprimere le mie variopinte e giuste idee attraverso la carta stampata, indipendentemente dal partito politico di riferimento. All'insaputa di mia madre ho bigiato la scuola, nonostante un decisivo compito in classe di matematica, per recarmi nel cuore pulsante di Milano, in via Negri, nella (ora ex) sede de il Giornale.

Mi sono presentata abbastanza tirata, giusto per non dare l'impressione di essere una sciattona incurante dei vestiti e delle fonti delle notizie. Sulle spalle avevo il mio zainetto rosa Eastpack con numerosi orsacchiotti e gadgets attaccati. Solo nel momento di varcare la vitrea porta automatica mi è balenato in mente che quella paccottiglia morbidosa non sarebbe stata un buon biglietto da visita per entrare in uno dei più prestigiosi (così pensavo in quel tempo) giornali italiani. Ma a quanto pare non era nell'interesse di questi tipi assumermi o glorificare la loro testata con i miei articoli di denuncia verso tutto il male che logora l'Italia rendendola molto simile a Mammona.

Una donna talmente rifatta da essere ricostruita al di fuori della sua struttura portante originaria (mi viene in mente l'Aquila) mi disse di aspettare l'arrivo del Magnifico Direttore. Avrei dovuto immaginarmi che in quegli uffici Satana proliferava come l'Aids tra gli omosessuali di San Francisco, vedendo le locandine di numerosi film sul cannibalismo attaccati sulle pareti della sala d'attesa. In una, particolarmente truce, una donna era appesa per i seni con dei ganci da macellaio. Mi sconvolse poi vedere incorniciato il manifestino di un film titolato “La Bestia in calore” e un tavolino nero su cui erano presenti numerose riviste pornografiche e alcuni fermacarte a forma di fallo, o forse erano dei falli a forma di fermacarte.

Non dovetti contemplare a lungo quelle nefandezze; una più grande, nascosta nel corpo di un uomo dotto e affermato, stava per prospettarsi ai miei occhi. Vittorio Feltri mi accolse molto calorosamente nel suo ufficio. All'inizio fu dolce e mi ricoprì di complimenti e sdolcinatezze, disse che per lui la verità era la cosa più importante ed io la incarnavo perfettamente, che la verità era stata plasmata dagli dei ed aveva preso la forma del mio corpo giovane e prosperoso, che se la Verità avesse avuto una musa quella musa sarei stata io, che avrei potuto ispirare per un tempo X un numero N di poeti ed il risultato sarebbe stato . Insomma, Feltri sussurrava cose che non proferirebbe certo il tuo ragazzo dopo un paio di penne ed una sgasata sul motorino, nemmeno dopo aver bevuto un litro di redbull nel quale un prete ha sciolto degli acidi. Questa sua poetica gentilezza mi diede un po' di energia positiva, così vinsi l'emozione di parlare con un uomo della sua stazza e gli dissi che mi piaceva scrivere e che avrei fatto di tutto per diffondere la Verità tra i lettori valorizzando la loro intelligenza, perché quella era la mission del Giornale quindi anche la mia.

Dissi anche che consideravo il Giornale come una testata prestigiosa e seria, i cui giornalisti si documentavanofino alla noia prima di diffonder notizie, con titoli sobri come si confà ai giornali super partes dei paesi democratici, senza collusioni con il potere politico. Di certo esagerai un po' con lo sbrodolamento, ma già mi vedevo abbandonare la scuola a 18 anni per una carriera da giornalista. A posteriori possiamo dire che Il Giornale non è un luogo fecondo per i Pulitzer della verità e le mie speranze erano allucinazioni come quelle di Cristo che viene sedotto da Satana dopo 40 giorni nel deserto.

I miei complimenti (devo ammettere un po' gratuiti e volti solo ad intenerire Feltri in vista di una possibile assunzione) hanno avuto lo stesso effetto che l'acqua santa gettata negli occhi di un indemoniato. Udite quelle parole compiacenti il Direttore iniziò a svalvolare, similmente alla ragazzina del film l'esorcista, generando una scena che avrebbe terrorizzato anche Nightmare. Spalancò la bocca in una demoniaca orgia bestiale ed eruttò un rigurgito verdastro che mi mancò il viso di pochi centimetri, poi si mise a nitrire come un cavallo imbizzarrito, saltando in piedi sulla sedia, sul tavolo e girando la testa di 180° gradi. Terrificata mi volsi di scatto per fuggire, ma Feltri con un balzo equino (mi sembrò anche di sentire rumore di zoccoli) mi raggiunse e con le sue braccia oblunghe cercò di strapparmi la maglietta. Vedendo il suo sguardo posseduto e voluttuosamente satanico mi misi a gridare con tutto il fiato che avevo in corpo, tanto che le mie corde vocali rischiarono di saltare come elastici.

Presi la prima cosa che mi capitò a portata di mano per gettargliela addosso (casualmente era un dildo fucsia), ma mancai il bersaglio spaccando il vetro della finestra. Feltri intanto nitriva, si dimenava come un ossesso, sputava satanici lapilli di maligno che corrodevano tutto ciò su cui si depositavano, scalciava come un cavallo macellato islamicamente, emetteva versi tipo "lamenti dei dannati". Intanto che con una mano, quel bastardo, figlio di puttana, mi aveva agguantato, con l'altra cercava di strapparmi la maglietta. Cercai di allontanarlo tirando fuori le unghie, ma era tremendamente più forte di me e gridava “Ce l'ho duro, duro come il cazzo di un mulo”, “ti traforo, dentro ti ci faccio passare la TAV, e tutte le grandi opere di Berlusconi”. Le sue mani mannare mi martoriarono segni indelebili sulla pelle fresca e vellutata, mentre io opponevo resistenza con il doppio delle forze disponibili. Sarei stata selvaggiamente stuprata, soffocata da quest'uomo al cui confronto Pacciani è Madre Teresa di Calcutta, se un fortuito colpo di fortuna, un segnale tangibile dell'esistenza di Dio, non fosse intervenuto a pochi secondi dall'apocalisse. La porta si aprì di scatto ed entrò Alessandro Sallusti, vicedirettore di quella testata giornalistica al cui confronto la carta igienica vale come un fascio di banconote da 500 euro. Ricordo ancora che Sallusti aveva in mano una testa di capretto appena sacrificato da cui gocciolava del sangue. Feltri vedendo il suo fido collaboratore si distrasse un attimo, giusto il tempo per permettermi di svincolare dalla sua presa possente e fuggire oltre la porta, giù dalle scale, veloce come una lippa, con la maglietta lacerata e sporca di sangue. Ricordo ancora che entrai a scuola alla terza ora, giusto in tempo per la verifica di matematica. Lo shock per l'aggressione mi salì solo nel pomeriggio ma non ne parlai con nessuno, nemmeno con le mia amica del cuore e con la psicologa della scuola. Alcuni giorni dopo mi comparvero dei bubboni dove mi aveva toccato Vittorio Feltri.

Dopo questa terribile avventura ho imparato ad essere diffidente di tutto ciò che sta scritto su il Giornale.